Il mito di Efesto (cosa hanno in comune Omero, Beethoven, Toulouse-Lautrec e Stephen Hawking?)

Tra tutti i miti che si raccontano, quello di Efesto mi ha sempre e maggiormente affascinato. Se ci guardiamo attorno, Efesto possiamo scorgerlo in tanti grandi eroi della storia e della cultura. Non parlo degli eroi comuni, o comunemente intesi: a fare gli eroi così, son buoni tutti, basta l’occasione propizia. Parlo degli eroi speciali e pazzeschi come Ludwig van Beethoven (1770-1827), completamente sordo e imprescindibile compositore di musica per il bene di tutta l’umanità; come Omero (VIII secolo a.C.), poeta cieco e visionario per antonomasia; come Stephen Hawking (1942-2018), tra i più autorevoli studiosi di cosmologia, malato di SLA e instancabile divulgatore scientifico attraverso il suo sintetizzatore vocale; come Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901); come Giacomo Leopardi, Jorge Luis Borges, Michel Petrucciani… Una scintilla di Efesto splende in loro come in tanti luminosi prodigi che incontriamo lungo le nostre vite. (NB. Il nome di Efesto può considerarsi una correzione di hemerophaistos, «colui che brilla durante il giorno»).

Fotogramma dal film “Wonder”, regia di Stephen Chbosky, USA, 2017

Ma chi è Efesto? Un dio o uno sfigato? Be’, i problemi di Efesto iniziano prima ancora che nascesse, già dal concepimento: è di incerta paternità. Figlio di Hera e fratello di Ares, alcuni miti lo vogliono figlio di Zeus, altri di Hera soltanto. È nato così gracile e mingherlino che sua madre Hera, disgustata, lo gettò giù dalla più alta vetta dell’Olimpo per liberarsi dall’imbarazzo che il suo pietoso aspetto le ispirava.

«[…] il frutto delle mie viscere, Efèsto, mio figlio,
infermo è più che ogni altro dei Superi, ha torte le gambe.
Io l’afferrai per un piede, lo scaraventai giù nel mare;
ma di Nerèo l’accolse la figlia dai piedi d’argento,
Tètide, e lo recò fra l’altre sorelle».

Inni omerici, Inno ad Apollo Pizio (traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1925)

Efesto però sopravvisse al pauroso volo poiché cadde nel mare, dove le Oceanine Teti (la futura madre di Achille) e Eurinome erano pronte ad accoglierlo. Queste dee gentili tennero il bimbo con loro in una grotta sottomarina, dove Efesto installò la sua prima fucina e ricompensò le sue ospiti delle cortesie usategli fabbricando per loro ogni sorta di oggetti utili e ornamentali.

Verrà ammesso nuovamente tra le divinità dell’Olimpo quando gli dei verranno a sapere della sua straordinaria abilità: infatti, un giorno, quando ormai erano passati nove anni, Hera incontrò Teti che aveva appuntata sulla veste una spilla fabbricata da Efesto. Scoprì così la verità, suo figlio non era morto, e subito lo riportò sul monte Olimpo, dove preparò per lui una splendida fucina, con venti mantici che soffiavano notte e giorno; e poiché aveva ormai grande stima del figlio combinò le sue nozze con Afrodite, dea della bellezza.

La sua re-integrazione, tuttavia, sarà nuovamente compromessa dalle sue stesse parole e dal suo aspetto: a causa di quest’ultimo, Afrodite lo tradì in più occasioni, preferendogli il fratello Ares, dio della guerra.

Efesto osò rimproverare Zeus in difesa della madre Hera, punita per essersi a lui ribellata: Zeus infuriato scagliò il figlio di Hera per la seconda volta giù dall’Olimpo. Precipitò nell’aria per un giorno intero e toccando terra sull’isola di Lemno si fratturò ambedue le gambe; benché immortale, era rimasta ben poca vita nel suo corpo quando gli abitanti di Lemno lo raccolsero.

«Abbi pazienza, o madre, sopporta, se pure tu soffri,
ch’io con questi occhi mai veder non ti debba percossa:
sebbene tanto io t’amo, soccorrerti allor non potrei,
per quanto io mi crucciassi: ché duro è contender con Giove!
Anche quell’altra volta ch’io volli difenderti, a un piede
egli mi strinse, e giù mi scagliò dalla volta del cielo.
Rimasi un giorno intero per aria; e al tramonto del sole,
in Lemno caddi; e poco di spirito ancor mi restava:
la gente Sintia qui mi raccolse, dov’ero caduto».

Omero, Iliade, I, vv. 585-594 (traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1923)

In seguito, ritornato sull’Olimpo col perdono di Zeus, potè camminare con l’aiuto di stampelle d’oro.

E Teti pie’ d’argento, pervenne alla casa d’Efèsto,
stellata, eterna, bella fra quante son case dei Numi,
tutta di bronzo, che aveva costrutta egli stesso, il Pie’ torto.
E lo trovò che sudava, girandosi ai mantici attorno,
che s’affrettava: stava foggiando dei tripodi, venti,
da stare alle pareti d’intorno a una solida stanza.
Sotto a ciascuno, alla base, disposte egli aveva rotelle
d’oro, perché da sé movesser dei Numi ai convegni,
poi ritornassero a casa da sé, meraviglia a vederli.
Eran sin qui compiuti; ma ancora le fulgide orecchie
non v’erano: ei le stava foggiando, battendone i chiovi.
Mentre a queste opere intento con grande artificio era il Nume,
Tètide a lui, la Dea dall’argentëo pie’, giunse presso.
Càrite giunger la vide, la bella dal morbido velo,
che sposa era d’Efesto, l’insigne ambidestro; e le mosse
contro, le prese la mano, le volse cosí la parola:
«Teti dal lungo peplo, qual causa, diletta e onorata,
te guida al nostro tetto? Di rado venirci solevi!
Vieni prima con me, ché i doni ospitali ti porga».
E, cosí detto, seco l’addusse la Dea fra le Dive,
sovra un bel trono ornato di borchie d’argento e di fregi,
seder la fece; ed uno sgabello anche v’era pei piedi.
Efèsto indi chiamò, l’artefice insigne, e gli disse:
«Efèsto, fatti avanti, ché Tètide è qui che ti cerca».
E a lei rispose allora l’artefice insigne ambidestro:
«Una gran Dea mi dici ch’è giunta, ch’io venero. In salvo
ella mi trasse, quando, caduto dal cielo, io pativo,
mercè della mia madre, la cagna sfacciata, che volle
farmi sparire, perché ero zoppo; e avrei molto sofferto,
se non m’avessero accolto nel grembo Eurínome e Tèti,
Eurínome, la figlia d’Ocèano, che cinge la terra.
Stetti sette anni con esse, foggiando molte opere belle
nel bronzo, e fibbie, e curvi bracciali, e collane ed anelli,
entro la cava spelonca: d’intorno, d’Ocèano il flutto
scorrea rimormorando, spumando incessante; né altri
sapea, né fra i Celesti, di me, né fra gli uomini: sola
Tèti sapea, che salvato m’aveva, ed Eurínome sola.
Ed ora, alla mia casa giunge ella: pertanto conviene
che adesso io renda a Tèti dai riccioli belli il compenso.
Ora, imbandisci tu per essa la mensa ospitale,
ché io metta da parte i mantici e tutti gli arnesi».

Omero, Iliade, XVIII, vv. 368-409 (traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1923)
Pieter Paul Rubens, “Efesto che forgia le saette di Zeus”, 1636-38

Efesto è brutto e di cattivo carattere, ma ha grande forza nei muscoli delle braccia e delle spalle e tutto ciò che fa è di impareggiabile perfezione. Il poeta non vedente Omero ci ha narrato di questo dio costruttore della mitologia greca, rifiutato dai “divini” genitori a causa delle sue fattezze di storpio, come di un dio disabile che però costruisce gli strumenti sia per la propria autonomia e sia per il progresso degli uomini. Accolgo qui le osservazioni di Luciano Perez, psichiatra e psicologo analista, autore di un intervento dal titolo Aspetti simbolici della disabilità. La figura di Efesto rappresenta un archetipo che sottolinea l’importanza della conquista dell’autonomia da parte delle persone disabili e l’abbattimento dei comuni pregiudizi.

È infelicemente noto a tutti che l’altro, il “diverso”, diventa il bersaglio preferito delle nostre proiezioni psicologiche negative. Vale a dire: esiste, nel nostro subconscio, una parte di noi che rimuoviamo e rifiutiamo, ma che ci accompagna sempre; questa parte, quando viene respinta, rifiutata o non assimilata dalla coscienza, si presenta a noi dall’esterno. Ci sono innumerevoli esempi quotidiani, ma anche storici e sociali a riguardo: basti pensare al rifiuto che i gruppi sociali maggioritari hanno avuto nei confronti degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali (Europa medievale,  nazismo), degli afro-americani (Stati Uniti), della donna da parte di molte religioni tra cui il Cristianesimo. [Perez, 2004].

Lato frontale della moneta da 50 Lire raffigurante il dio Efesto o Vulcano (in circolazione in Italia dal 1954 al 2002)

Questo meccanismo di rifiuto si applica anche al caso dei disabili. Trovo, dunque, necessario, per rendersi conto di tale meccanismo e destrutturarlo, vedere come il disabile possa essere inteso simbolicamente attraverso il mito greco.

Efesto (nome latino: Vulcano) è il grande dio della metallurgia, le cui fucine sono state localizzate in vari luoghi, ad esempio in Sicilia: alla fine del racconto, Efesto, stanco di essere deriso dalla dea della bellezza, torna sulla Terra, nelle viscere del monte Etna, abbandonando l’Olimpo per sempre. Ancora oggi, se l’Etna fuma, è perché Efesto sta lavorando a chissà quale prodigioso marchingegno meccanico o a chissà quale meravigliosa invenzione artistica.

La figura di Hera (o Era, o Giunone nella mitologia romana), di cui Efesto è vittima, rappresenta la madre-matrigna quale è stata madre natura per molti disabili. La storia raccontata dal mito prevede che Efesto si vendichi di questa madre snaturata, invidiosa e maligna. Efesto si prende la sua vendetta su Hera costruendo e donandole un magico trono d’oro il quale, non appena ella vi si siede, la tiene imprigionata, non permettendole più di alzarsi. Gli altri dei pregano Efesto di liberarla, ma egli si rifiuta più volte di farlo e abbandona l’Olimpo. Allora Dioniso fa in modo di ubriacarlo e lo riporta indietro legato sul dorso di un mulo. Efesto acconsente a liberare la madre, a patto che tutti gli dei lo riconoscano come dio.

Si può interpretare quest’ultima parte del mito con un accenno alle possibilità tecnologiche – dai veicoli alle protesi, alle facilitazioni architettoniche – che permettono ai disabili di vendicarsi, o perlomeno di limitare i danni, di una natura maligna. Dio dei fabbri e degli artigiani, Efesto raggiunge vette eccelse sia tecniche sia artistiche: dalle fanciulle meccaniche tutte d’oro allo scudo di Achille.

C’è un’altra considerazione da fare in relazione al personaggio: oltre alla deformità delle gambe e alla bruttezza del volto esemplificata dai capelli e dalla barba ispidi, Efesto, nelle varie versioni del mito che lo riguardano, ha sempre a che fare direttamente con la bellezza (femminile, sulla base dei rapporti che intrattiene con Afrodite, Atena, Charis, Algae; artistica, in relazione alle opere da lui forgiate). Questo rapporto tra deformità e bellezza rappresenta il senso profondo di ciò che ci viene insegnato da millenni.

Henri de Toulouse-Lautrec nel suo studio, mentre dipigne il suo celebre “Ballo al Moulin Rouge” (1889-1890)

La deformità del corpo apre a una serie di bellezze “divine” e quindi psichiche, secondo un percorso concettuale dal corpo alla mente. La deformità può essere la “porta” attraverso la quale si può arrivare alla bellezza, anche, e certamente, grazie alla perizia artistica e tecnologica di Efesto. Si può interpretare che la menomazione apra la strada a una specializzazione dell’individuo che gli permetta, essendo Efesto un dio, di raggiungere traguardi, pur all’interno delle sue limitazioni, divini.

Dal punto di vista strutturale, il mito può essere osservato anche seguendo la direttrice alto-basso e ritorno. Dalla vetta della montagna all’abisso dell’oceano, e dall’abisso al cielo; discesa e ascensione – peccato e redenzione.

Poiché fisicamente menomato, Efesto è cacciato dall’Olimpo e rotola per giorni verso il basso: è proprio perché fisicamente menomato, danneggiato, privato dell’integrità e dell’efficienza, che l’ascesa spirituale è possibile. Per salire ci si deve paradossalmente diminuire.

Non possiamo quindi considerare la menomazione di molti disabili un segno di qualcosa che potremmo interpretare come una possibilità di crescita spirituale, anche se pagata a carissimo prezzo?

Queste cose vanno bene:
un gelato e una torta
una corsa sull’Harley
vedere le scimmie sugli alberi
la pioggia sulla lingua
e il sole che splende sul mio viso

Queste cose fanno schifo:
polvere nei miei capelli
buchi nelle mie scarpe
niente soldi nelle mie tasche
e il sole che splende sul mio viso

Roy Lee Dennis, 1961-1978

Fonti:

  • Robert Graves, I miti greci, Longanesi, 1963
  • Omero, Iliade, traduzione di Guido Paduano, Mondadori, 1995
  • Omero, Iliade, traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1923
  • Omero, Omero minoreInni – Batracomiomachia – Epigrammi – Margite, traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1925
  • R. J. Palacio, Wonder, Giunti, 2012
  • Luciano Perez, Aspetti simbolici della disabilità, relazione tenuta in Marsala, Complesso monumentale di San Pietro, 3 Dicembre 2004.

Foscolo in poche parole

La vita

Ugo Foscolo in un disegno di Tullio Pericoli
Ugo Foscolo in un disegno di Tullio Pericoli

Quella di Ugo Foscolo è la personalità che meglio incarna la sensibilità preromantica negli anni della dominazione napoleonica. Passioni e angosce del poeta diventano le lenti privilegiate per interpretare il mondo: l’ardore sentimentale rivendica un suo ruolo nella realtà della vita e della storia e giunge a identificare vita e libertà nella poesia stessa, a tutti i costi, a discapito di ogni occasione di convenienza e buttando al vento ogni cautela.

Foscolo nasce nel 1778 in Grecia, a Zante (una delle isole greche del Mar Ionio appartenenti alla Repubblica di Venezia) da padre veneziano e da madre greca. Studia a Spalato (dove un professore, notando la sua indole vivacissima, i capelli rossi spettinati, lo sguardo di fuoco, gli predice che diventerà un grand’uomo… o un demonio!). All’eta di quattordici anni, dopo la morte del padre, si trasferisce con la madre e i fratelli a Venezia. Impara l’italiano e si dedica alle letture più varie (soprattutto legge i classici greci, latini e italiani). NB. il legame familiare con la propria terra lascerà una traccia indelebile nel carattere del poeta: la Grecia è la terra-madre; l’Italia è la terra dei padri = patria.

Politicamente, è un entusiasta degli ideali Rivoluzione Francese e della personalità di Napoleone, che di quegli ideali gli sembra l’interprete destinato a diffonderli in Europa e in Italia.

A diciannove anni compone il Tieste (1797), la sua prima tragedia, di ispirazione alfieriana, la quale ottiene successo e a causa della quale cade in sospetto agli occhi della Repubblica di Venezia per le sue idee giacobine. Si allontana perciò da Venezia e si arruola nel corpo dei Cacciatori a cavallo della Repubblica Cispadana. È all’interno dell’esercito che pubblica l’entusiastica ode A Bonaparte liberatore. Nello stesso 1797 torna a Venezia e si fa promotore dell’annessione della città alle altre regioni ormai ‘liberate’; ma con il Trattato di Campoformio, siglato nell’ottobre del medesimo anno, Napoleone concorda con l’Austria proprio la cessione di Venezia. Foscolo, fortemente deluso, è indotto a scegliere la strada dell’esilio.

Bandiera della Repubblica Cispadana

Si rifugia a Milano, dove conosce l’anziano Giuseppe Parini e stringe amicizia con Vincenzo Monti (si innamora – non ricambiato – della moglie), fonda insieme a Melchiorre Gioia un giornale di ispirazione patriottica e unitaria, il Monitore italiano. Nel 1798 è a Bologna; inizia la stesura delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Si arruola nella Guardia Nazionale e viene ferito nei pressi della cittadina emiliana di Cento.

Dopo una breve convalescenza passa agli Usseri della Repubblica Cisalpina, partecipa all’assedio di Genova; qui scrive l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo; viene nominato capitano. Nel 1800 conosce e si innamora di una giovane donna destinata ad andare in sposa a un uomo che non ama. Compone alcuni dei Sonetti e rimette mano all’Ortis.

Bandiera del Secondo Reggimento degli Usseri della Repubblica Cisalpina

Torna a Milano, dove è colpito da un grave lutto familiare: il fratello Giovanni si è suicidato per debiti di gioco. Si lega affettivamente ad Antonietta Fagnani Arese, alla quale dedica l’ode All’amica risanata.

È il 1804 e, per rimediare alle difficoltà economiche in cui si trova, chiede di essere inviato al seguito della spedizione militare che Napoleone sta preparando contro l’Inghilterra: Foscolo è tuttavia costretto a sostare per due anni in varie località del nord della Francia. Non trascura in questo periodo l’attività letteraria: traduce, infatti, il Viaggio sentimentale di Laurence Sterne a cui aggiunge la sua Notizia intorno a Didimo Chierico. Conosce una giovane donna inglese, Sophia Hamilton, dalla quale ha una figlia, Mary: ma rientrerà in Italia ben prima della sua nascita e ne ignorerà l’esistenza fino al giorno in cui la incontrerà, ormai cresciuta, in Inghilterra.

Nel 1806, a Padova, fa visita all’amico Ippolito Pindemonte che gli offre lo spunto per la composizione del carme Dei Sepolcri. Nel 1808 è nominato professore di eloquenza all’Università di Pavia: nella prolusione che viene invitato a fare gli si chede di omaggiare Napoleone, ma Foscolo non rende alcun omaggio alle autorità, sostenendo anzi un discorso apertamente patriottico. La cattedra viene soppressa e Foscolo torna senza un’occupazione.

Oramai accusato di essere un antibonapartista, nel 1811, quando alla Scala di Milano si rappresenta la sua seconda tragedia, Ajace, la polizia e gli intellettuali milanesi vedono adombrato nella figura di Agamennone lo stesso imperatore: le repliche sono sospese e il poeta nuovamente cacciato via.

Ugo Foscolo a Bellosguardo (Firenze), litografia

Per un periodo di due anni vive a Firenze, lavorando, senza mai concludere l’opera, all’inno alle Grazie. Giunge a Milano una volta che Napoleone è sconfitto a Lipsia (1813): ormai è diventato un pessimista che non ha più fiducia nell’autonomo riscatto del popolo italiano. Quando gli Austriaci tornano a Milano gli offrono la direzione di un giornale, ma il poeta non accetta, prendendo ancora, e questa volta definitivamente, la via dell’esilio.

In Inghilterra è accolto con benevolenza, anche se il suo soggiorno è sempre più solitario. Prezioso è l’aiuto della figlia Mary (che Foscolo chiama Floriana) che assiste il padre in ogni modo. Muore, povero e malato, nel 1827 nel sobborgo londinese di Turnham Green.

Nel 1871 le sue ossa sono trasportate in Italia e collocate a Santa Croce, a Firenze, tra i sepolcri dei grandi che aveva cantato.

Foscolo poeta

Foscolo è un poeta che – sorprendentemente, per il tempo in cui vive – offre una produzione esigua: pochi componimenti giovanili, le Poesie (12 sonetti e 2 odi), i Sepolcri e le Grazie (incompiute). Foscolo è insomma scrittore di poche cose, in linea con l’insegnamento pariniano e in contrasto polemico con la prolissità dell’Arcadia (poeti di vena copiosa e di poche convinzioni ideologiche).

Le Poesie di Foscolo sono il più ridotto canzoniere della nostra letteratura, esempio insuperato di lingua difficile, nutrita della più illustre tradizione lirica italiana (Petrarca) e dei classici latini e greci.

Nelle Poesie non c’è traccia di imitazione della classicità elegiaca, amorosa, mitologica, né di ripresa declamatoria e retorica dei modelli antichi: per comprendere Foscolo occorre pensare all’insegnamento di Parini, e in particolare alla sua maniera difficile sul piano linguistico e metrico (abbiamo già parlato di Giuseppe Parini qui). Nell’ereditare la sua lezione, Foscolo ne porta all’estremo i risultati, cercando uno stile ancora più arduo e inconsueto: da una parte Parini tende alla medietas stilistica – espressione di un superiore dominio della mente sui moti del cuore, tipicamente illuminista; dall’altra Foscolo tende all’ideale eroico, alimentato da passioni generose e inconciliabili: un ideale che preannuncia il romanticismo.

Martino Knoller, Giuseppe Parini (1729-1799)

È questo il motivo della ricerca di un’espressione stilistica vivacemente originale, in particolare nell’accostamento delle parole (in part. il gruppo sostantivo-aggettivo), senza precedenti nei modelli volgari e, talora, in quelli greci e latini, dunque ben oltre i confini della classicità aurea in cui si era limitato Parini. Questa ricerca, va detto, deriva anche da una predisposizione innata: la forza inventiva di lessico e sintassi viene a Foscolo dal ricorso alla tradizione greca, che può utilizzare, come pochi altri, di prima mano.

François-Xavier Fabre, Vittorio Alfieri (1749-1803)

La proposta stilistica di Foscolo, illustre e ardua, in apparente contraddizione con le convinzioni democratiche professate dall’autore stesso, rappresenta il culmine della poesia neoclassica dell’Ottocento. Non va dimenticato che in Foscolo agisce l’aristocratico modello eroico di Vittorio Alfieri e che il pessimismo via via crescente nell’animo del poeta fa sì che si rivolga ad un’eletta schiera di «animi forti».

A egregie cose il forte animo accendono
L’urne de’ forti, o Pindemonte

Sepolcri (vv. 151-152)

I romantici del Conciliatore, il giornale lombardo portavoce del romanticismo in Italia (1818), parleranno con ben altro linguaggio, molto più accessibile a un pubblico che aspira a essere il più vasto possibile. Nel Risorgimento la lezione foscoliana continuerà a vivere più per la forza del suo messaggio e dei suoi ideali che per il suo modello poetico e formale.

Continua…

Salvatore Quasimodo, “Ai quindici di Piazzale Loreto”

bolledicultura

Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi, chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini, Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio, Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d’un albero
di sangue, Galimberti, Ragni, voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la terra
nell’ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe di piombo ci umiliano :
troppo tempo passò. Ricade morte
da bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle porte
ancora delle vostre case. Temono
da voi la morte, credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non è veglia di lacrime alle tombe:
la morte non dà ombra quando è vita.

Salvatore_Quasimodo_1959 Il poeta Salvatore Quasimodo

COMMENTO:

Il disastro della Seconda Guerra Mondiale rappresenta una svolta nel percorso di Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la letteratura nel 1959. All’astrattezza e oscurità di gusto ermetico tipiche del primo Quasimodo, subentrano tematiche civili e un linguaggio più concreto…

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Manzoni in poche parole

Manzoni
Alessandro Manzoni in un disegno di Tullio Pericoli

Cenni biografici

Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785. Il padre è il conte Pietro Manzoni, un nobile di 46 anni contrario alle idee illuministe. La madre è Giulia Beccaria, una giovane donna di 20 anni colta e spregiudicata, figlia di Cesare Beccaria, uno dei più importanti illuministi italiani (autore di Dei delitti e delle pene).

Il matrimonio tra i genitori di Manzoni, celebrato per interesse (Giulia era stata costretta a sposare Pietro a causa dei problemi economici della sua famiglia), fallisce presto a causa della differenza di età e di mentalità tra i coniugi. Dopo la separazione, Giulia si trasferisce a Parigi (il più importante centro culturale dell’epoca).

Da questo momento i rapporti del piccolo Manzoni con il padre e con la madre cessano quasi del tutto: il bambino prima viene mandato a balia e poi a studiare in collegi religiosi, dove riceve un’educazione assolutamente contraria sia all’Illuminismo sia al Romanticismo. Nonostante questo, però, il giovane Manzoni, fiero ammiratore del nonno paterno, si accosta presto all’Illuminismo, di cui fa proprio l’ateismo, l’odio per la tirannide, l’amore per la libertà e i principi della giustizia e dell’uguaglianza. Le sue opere giovanili testimoniano il suo ateismo e il suo odio per il dispotismo. In esse è già presente l’idea di una letteratura impegnata a livello civile e posta al servizio della verità che rimarrà una costante della produzione di Manzoni anche dopo la conversione.

Nel 1805 Manzoni raggiunge la madre a Parigi dove conosce alcuni tra gli intellettuali più noti d’Europa e viene a contatto con il nascente movimento del Romanticismo. Fra le amicizie che strinse a Parigi, è molto importante per la sua formazione quella con Claude Fauriel (uno dei promotori del Romanticismo in Francia) da cui apprende l’amore per la Storia.

A Parigi Manzoni conosce anche Enrichetta Blondel, una giovane ginevrina di religione calvinista, che nel 1808 diviene sua moglie. Subito dopo il matrimonio, per i due sposi inizia una crisi religiosa che porta Enrichetta ad abbracciare il cattolicesimo; poi nel 1810 lo stesso Manzoni abbandona l’ateismo illuminista e ritorna con convinzione profonda alla fede cattolica.

La conversione al cattolicesimo è l’evento più importante della vita di Manzoni: la fede cattolica consente a Manzoni di trovare un fondamento per le sue convinzioni morali. Manzoni, infatti, si rende conto che gli ideali di libertà, uguaglianza, fraternità e giustizia, che tanto lo avevano attirato nell’Illuminismo, sono in realtà gli elementi fondamentali del Vangelo. Il cattolicesimo, quindi, non lo porta a rinnegare gli ideali illuministici di libertà, uguaglianza, fraternità e giustizia, né la sua battaglia per un rinnovamento politico e letterario, né la sua concezione della letteratura come mezzo di educazione umana e spirituale, anzi gli consente di fondare questi ideali su una fede che gli dà la certezza del trionfo del bene sul male al di là di ogni delusione presente. Mentre nel resto dell’Europa il cattolicesimo sposava la Restaurazione, Manzoni fu un cattolico liberale e democratico.

Dopo la conversione, Manzoni e la moglie tornano in Italia (1810), dove Manzoni si dedica all’attività letteraria con la passione ispiratagli dalla conversione. Il suo scopo, infatti, era quello di educare il popolo a raggiungere una piena consapevolezza, congiungendo al cattolicesimo gli ideali di libertà e giustizia del Risorgimento.

Dal 1812 al 1815, Manzoni compone gli Inni Sacri, una serie di poesie dedicate alla celebrazione delle più importanti feste religiose dell’anno liturgico. Gli Inni hanno lo scopo di illustrare i principali misteri della fede in una forma comprensibile a tutti i fedeli. Manzoni persegue, quindi, una poesia utile (trasmettere il messaggio del Vangelo) e popolare. In esse si vede già l’interesse di Manzoni per gli umili (che sarà così importante nei Promessi Sposi): i protagonisti di queste poesie non sono le personalità eroiche o le imprese eccezionali, ma la vita di ogni fedele e della comunità cristiana. Per Manzoni, infatti, tutti gli uomini sono uguali e hanno pari dignità perché tutti sono stati creati a immagine e somiglianza di Dio. Inoltre, gli Inni testimoniano l’interesse di Manzoni per le tradizioni che stanno alla base della vita di ogni singolo popolo (tipica del Romanticismo).

Tra il 1816 e il 1822, Manzoni compone due tragedie: Il conte di Carmagnola e l’Adelchi. Entrambe le tragedie sono di argomento storico e sono ambientate in due momenti cruciali della storia nazionale italiana (lotte fra gli Stati regionali italiani per la supremazia nella penisola; lotta tra Longobardi e Franchi). Le tragedie testimoniano l’interesse di Manzoni per la Storia (presente anche nei Promessi Sposi). Inoltre, esse esprimono il patriottismo di Manzoni e la sua adesione al Risorgimento.

Nel 1821, Manzoni scrive Marzo 1821 (in occasione dei moti carbonari del 1821, quando pareva che Carlo Alberto fosse sul punto di passare il Ticino e liberare la Lombardia dalla dominazione austriaca) e Il 5 maggio (in occasione della morte di Napoleone). Queste poesie, note come odi civili, testimoniano l’interesse di Manzoni per la realtà contemporanea e la sua adesione al Risorgimento.

Tra il 1821 e il 1840 Manzoni di dedica principalmente alla stesura de I Promessi Sposi.

A partire del 1833 Manzoni deve affrontare una serie di gravi lutti: nel giro di pochi anni muoiono la moglie, la madre e 9 dei suoi 11 figli. Nel 1837 Manzoni sposa Teresa Borri e nel 1861 viene nominato senatore del neonato Regno d’Italia. Muore a Milano nel 1873. L’anno seguente, per la celebrazione del primo anniversario della morte, Giuseppe Verdi compone e dirige la prima esecuzione della celebre messa da Requiem dedicata alla sua memoria.

Cenni alla poetica di Manzoni

Manzoni sintetizza i punti fondamentali della sua poetica nella lettera al Marchese Cesare D’Azeglio intitolata Sul Romanticismo (1823).

In questa lettera, Manzoni afferma che la letteratura deve avere “l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”. Per Manzoni, quindi, il fine (lo scopo) della letteratura è quello di educare il lettore come cristiano e come cittadino è ciò può avvenire solo se essa ha per soggetto (argomento) il vero, che è anche l’unica cosa interessante (che può appassionare il lettore).

È chiaro, quindi, che tutta la poetica di Manzoni ruota attorno al concetto di “vero” come soggetto dell’arte (solo in vero può essere utile e interessante). Pertanto, per capire la poetica di Manzoni dobbiamo capire quale significato egli attribuisca alla parola “vero” (che cosa sia il “vero” che deve essere soggetto dell’arte).

Nell’opera di Manzoni, “vero” assume diversi significati:

  1. prima della conversione, troviamo il “santo vero” (o “vero attuale”), ovvero la denuncia del dispotismo e della superstizione, per affermare gli ideali dell’Illuminismo (utile);
  2. dopo la conversione, a seconda delle opere, il vero oggetto della letteratura manzoniana può essere il “vero storico” o il “vero moderno”:
    • Il concetto di “vero storico” viene esposto da Manzoni in una lettera allo scrittore francese Victor Chauvet.
      In questa lettera Manzoni sostiene che il compito dello scrittore non è inventare fatti, ma attenersi agli avvenimenti della storia. E all’obiezione che, se togliessimo allo scrittore la possibilità di inventare i fatti, allora non ci sarebbe più alcuna differenza tra gli scrittori e gli storici, Manzoni risponde che questo non è vero. Il compito dello storico, infatti, è quello di raccontare le azioni che gli uomini hanno compiuto (la sua materia è il vero); il compito dello scrittore, invece, è quello di spiegare i sentimenti, i desideri, le passioni che hanno portato a quei fatti, in modo da rivelare il “guazzabuglio del cuore umano”, la sua miseria e la sua grandezza, il contrasto tra il suo piegarsi al male e il suo bisogno di bene e di Dio (la sua materia è il verisimile, un misto rigoroso di storia e invenzione).
      Il compito dello scrittore, quindi, si rivela molto più importante di quello dello storico perché lo scrittore rivela l’uomo a se stesso e lo porta a riflettere sull’animo umano, facendo vedere come il mondo possa essere riscattato dai valori cristiani (fratellanza, solidarietà e rispetto) e dall’azione della Provvidenza nella Storia (utile).
    • Il “vero moderno” viene citato nella lettera Sul Romanticismo e consiste nella rappresentazione dello spirito e delle tradizioni di un popolo, in modo da portarlo alla piena coscienza di sé (morale e civile).

Leopardi in poche parole

leopardi
Giacomo Leopardi in un disegno di Tullio Pericoli

Cenni biografici

Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798 (più o meno quando Manzoni si trasferiva a Parigi presso la madre) e morì a Napoli il 14 giugno 1837 (ancora prima che uscisse l’edizione definitiva dei Promessi Sposi).

La vita di Leopardi è tutta contrassegnata dalla sofferenza, dovuta sia alla malattia nervosa, i cui segni si annunciarono già nella sua prima giovinezza, sia alla sua profonda sensibilità, che gli fece sentire in modo drammatico le incomprensioni dell’ambiente familiare e i difficili rapporti con il luogo natio, per il quale nutrì sempre un sentimento oscillante tra l’odio e l’amore.

A Recanati Leopardi trascorse la fanciullezza e l’adolescenza, chiuso nell’immensa biblioteca del padre, dedicandosi per sette anni a quello che egli stesso definì uno “studio matto e disperatissimo”.

A vent’anni, dopo una grave malattia agli occhi che aggiunse dolore a dolore, tentò senza riuscirvi di fuggire dalla casa paterna. Solo nel 1822 ottenne dalla famiglia il permesso di recarsi a Roma, ospite degli zii materni. Il giovane Leopardi restò però deluso da questa esperienza: aveva sperato di trovare un clima culturale fervido e stimolante e invece incontrò un ambiente stagnante e repressivo, nel quale non riuscì a instaurare rapporti umani autentici.

Ritornò quindi a Recanati e nel 1825 partì per Milano, dove conobbe Alessandro Manzoni. Dopo altri soggiorni a Pisa (1828) e a Firenze (1830) strinse amicizia con il napoletano Antonio Ranieri che lo ospitò a Napoli, dove trascorse i suoi ultimi anni.

Quella di Leopardi è una poesia che riflette sulla infelicità umana. La sua riflessione, pur non organizzata in modo sistematico, segue un’evoluzione che è possibile ricostruire attraverso l’analisi dei testi. A questo scopo risultano particolarmente importanti le annotazioni contenute nei numerosi quaderni che costituiscono lo Zibaldone di pensieri. Si tratta di un diario dove Leopardi annotava in modo frammentario idee, episodi, stati d’animo e letture. Iniziò a comporlo all’età di 19 anni, nel 1817, proseguendolo fino al 1832.

Il pensiero

La poesia di Leopardi vuole indagare il senso dell’esistenza umana attraverso la ragione. Leopardi ha una concezione pessimistica della vita, che viene vista come un supplizio dominato dal dolore e dall’infelicità. Un percorso affidato in buona parte all’espressione poetica e centrato su alcuni temi (piacere, noia, dolore, natura, ragione) che fanno da filo conduttore a tutta la speculazione leopardiana.

Nel pensiero di Leopardi si distinguono solitamente tre momenti.

  • Il primo (dal 1818 al 1824) è detto del pessimismo storico, perché fondato sull’idea che l’uomo, in origine, godesse di una condizione più felice, grazie al rapporto diretto con la Natura e alle illusioni. In questo periodo Leopardi, seguendo il pensiero di Jean-Jaques Rousseau, concepiva la Natura (cioè la forza che dispone e regola la vita dell’universo) come una madre amorevole, che ci ha creati per la felicità, e attribuiva l’attuale tristezza del vivere allo sviluppo della civiltà e della ragione, limitatrice del sentimento e dell’immaginazione. Secondo questa teoria, l’uomo ha insito in sé il desiderio del piacere, ovvero della felicità (piacere e felicità per Leopardi sono sinonimi): il desiderio di un piacere infinito, sia nell’estensione che nella durata. La Natura, sapendo che l’uomo, in quanto creatura finita, non potrà mai raggiungere un piacere infinito, gli ha donato l’immaginazione, ma la ragione ha spento l’immaginazione, condannando l’uomo moderno all’infelicità. L’infelicità, quindi, è il frutto della civilizzazione, per cui la ragione è vista come il “sommo male”. In questo periodo Leopardi compose gran parte dello Zibaldone e i Piccoli idilli, 6 liriche celeberrime tra cui L’infinito.
  • Il secondo periodo (dal 1824 al 1830) è detto del pessimismo cosmico, perché è basato sull’idea che l’infelicità non sia caratteristica di una particolare condizione storica, ma che sia una condizione connaturata all’uomo e perciò ineliminabile: gli esseri viventi soffrono per il solo fatto di essere nati. In questa fase Leopardi passa dall’idea della natura come madre amorevole, a quella di una natura indifferente, che non si cura degli esseri viventi, ma solo della sua perpetuazione o addirittura matrigna, che si compiace della loro sofferenza. Il piacere è solo un’illusione, un inganno architettato dalla natura per attaccare gli esseri viventi alla vita e fare in modo che si riproducano in modo da assicurare il ciclo vitale. In questa visione, la ragione non è più concepita come “sommo male”, ma come “sommo bene”, perché permette all’uomo di scoprire l’inganno della Natura, restituendogli la propria dignità. In questo periodo Leopardi compone le Operette Morali (venti prose in cui l’autore presenta le sue idee sulla natura e sull’uomo) e i Grandi idilli, in cui la poesia si fa canto dell’animo di un singolo, ma dagli echi universali.
  • L’ultimo periodo viene chiamato del pessimismo eroico perché all’odio per la malvagità della natura si associa la volontà di resisterle eroicamente attraverso la solidarietà tra tutti gli uomini. La poesia più emblematica di questo periodo è La ginestra.

I Canti

Leopardi raccolse le sue poesie in una raccolta intitolata Canti. Il titolo Canti non ha precedenti nella tradizione lirica italiana. Con questo titolo Leopardi vuole suggerire la natura lirica della sua poesia, che è canto dell’anima. La maggior parte delle poesie della raccolta sono canzoni e idilli (l’idillio, eidullion in greco, era una forma poetica classica che consisteva in un piccolo quadretto paesaggistico di argomento pastorale).

La parola canzone rimanda alla sfera dell’udito e la parola idillio rimanda a quella della vista e proprio il vedere e l’udire sono, per Leopardi, le due facoltà principali del poeta.

Leopardi innova queste due forme poetiche rispetto alla tradizione. La canzone viene rinnovata dal punto di vista metrico (la canzone petrarchesca, diventa canzone libera leopardiana, con strofe di diversa lunghezza, libero alternarsi di endecasillabi e settenari e rime occasionali. NB. Tale svolta apre la strada al verso libero novecentesco nella tradizione metrica italiana.) Il genere dell’idillio, invece, viene rinnovato dal punto di vista contenutistico (passa da quadretto paesaggistico di argomento bucolico-pastorale a componimento che prende avvio dalla descrizione del paesaggio per sviluppare una riflessione filosofica e psicologica).

Continua…

Intorno a Giorgio Caproni (Statale 45)

Giorgio_caproni

 

Statale 45

1                                                         È una strada tortuosa [1].
1a                                                                                                           Erta [2].

2                                                                       Tipica di queste nostre
3                                                           zone montane [3].

3a                                                                                   Dovunque,
4                                                            segnali d’allerta.

5                                                                     Fondo dissestato

5a                                                                                               Frane.

6                                                                        Caduta massi.

6a                                                                                            Il motore
7                                                            s’inceppa.

7a                                                                           La ruota
8                                                           slitta sull’erba che vena
9                                                           l’asfalto.

9a                                                                          La mente è tesa.

9b                                                                                                    Non basta

10                                                        la guida più accorta.

10a                                                                                            A ogni svolta
11                                                        la sorpresa sovrasta [4]
12                                                        l’attesa…

12a                                                                       Procedere
13                                                        con prudenza.

13a                                                                               Bandire
14                                                        ogni impazienza.

14a                                                                                     La ripa [5]
15                                                       si fa sempre più infida [6].
16                                                       Più subdola [7].

16a                                                                           Più di una volta
17                                                       la presunta meta
18                                                       si rivela un’insidia [8].

Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1999.

Ad un primo colpo d’occhio non può non stupire, in questa poesia, la particolare disposizione dei versi. Può venire in mente, a mo’ di suggerimento, l’articolata architettura degli endecasillabi nelle tragedie alfieriane o manzoniane, o, se vogliamo, nei recitativi dei libretti d’opera, in cui, talvolta, uno stesso verso prevede due o più battute di dialogo ed è perciò spezzato graficamente e disposto con degli a capo seguendo come dei gradini in discesa. Tale suggerimento può essere funzionale per tentare un possibile conteggio dei versi della poesia di Caproni. È una poesia in cui se ne contano diciotto e dove, accanto a versi unitari, si possono osservare appunto versi segmentati e, se così si può dire, allargati, distanziati nello spazio bianco.

I versi non frazionati sono sette, tutti di misura breve e compresa tra il senario e l’ottonario: il v. 2 (“Tipica di queste nostre”), il v. 4 (“segnali d’allerta”), il v. 8 (“slitta sull’erba che vena”), il v. 11 (“la sorpresa sovrasta”), il v. 15 (“si fa sempre più infida”) e i vv. 17-18 (“la presunta meta / si rivela un’insidia”). È tra i versi segmentati che possiamo riconoscere tre endecasillabi –  il metro senza paragone più importante della tradizione italiana, evidente misura di riferimento anche per la versificazione libera del Novecento – il primo al v. 1+1a (“È una strada tortuosa. / Erta.”), il secondo e più articolato al v. 9+9a+9b (“l’asfalto. // La mente è tesa // Non basta”) e l’ultimo al v. 10+10a (“la guida più accorta. // A ogni svolta”). Restano frammenti di versicoli brevi, il cui conteggio metrico è forse superfluo [9]: quel che qui conta rilevare è come la seconda parte del verso risulti più vicina, sia graficamente sia sintatticamente, al verso successivo, piuttosto che sentire la vicinanza con la prima parte del verso, cui pure appartiene: una sorta di enjambement potenziato, in cui è ancor più evidente la mancanza di corrispondenza tra enunciato e verso, tra unità di senso e unità metrica, che conferisce alla veste grafica della poesia un aspetto – oserei dire – “scosceso”.

Di fronte a questi versi rarefatti occorre, tuttavia, riconoscere una notevole impalcatura, dettata in prima battuta di versi in corsivo che simmetricamente appaiono nella prima e nella seconda parte del componimento. L’osservazione formale, necessariamente, si completa con il significato di ciò che si legge: in particolare, al centro della lirica, il frammento centrale del v. 9, (“La mente è tesa”), determina il punto di svolta della poesia che da una situazione esterna (ossia la descrizione delle zone montane, la presenza dei segnali stradali di pericolo, la difficoltà di procedere dell’automobile) passa ad una dimensione interiore, descrivendo uno stato d’animo inquieto, un turbamento esistenziale. Le simmetrie tra la prima e la seconda parte della poesia sono ravvisabili in quella che, da un punto di vista esteriore, è la difficoltà della guida (“La ruota / slitta sull’erba che vena / l’asfalto” ) e, da un punto di vista interiore, è la successiva ammissione di incapacità nel procedere con i propri mezzi (“Non basta / la guida più accorta”). I segnali stradali, ciò che di più esteriore ci possa essere, così concreti e materiali, così non-poetici, avvisano del pericolo incombente (“Fondo dissestato. // Frane. // Caduta massi”); nella seconda parte si declinano, si tramutano in una sorta di segnaletica della mente (Procedere / con prudenza. // Bandire / ogni impazienza”). La poesia è dotata poi di una sua circolarità se osserviamo che l’immagine conclusiva (“Più di una volta / la presunta meta /si rivela un’insidia”) è il completamento di quanto annunciato in apertura (“È una strada tortuosa. / Erta”).

L’ultima stagione caproniana, aperta nel 1975 da Il muro della terra e proseguita poi con Il franco cacciatore (1982), Il Conte di Kevenüller (1986) e la postuma Res Amissa (1991) offre uno stile peculiare ravvisabile nella rarefazione sintattica dei singoli testi, costruiti con frasi brevi, accostate senza raccordi subordinativi e spezzate da incisi, reticenze, spazi bianchi, sospensioni: caratteristiche di cui troviamo testimonianza in Statale 45, in cui l’equilibrio, tra tanto vuoto e silenzio, è offerto essenzialmente dalle rispondenze foniche e dai dispositivi metrici. È da notare, nei primi versi, la tessitura del gruppo allitterativo -tr- e -rt- (“strada tortuosa. // Erta.”), rimarcata appena più avanti dalla rima Erta:allerta. È, ancora, nel centro del componimento che possiamo osservare un accumulo di suoni ed echi significativi: la parola “asfalto” (v. 9) è sia in corrispondenza fonica con “Non basta” (che, a sua volta, rima con “sovrasta”), sia in consonanza con “svoLTa” (a sua volta in assonanza con “accOrtA”); “La mente è tesa”, preceduta dall’assonanza con “vEnA”, rima con “sorpresa” e “attesa” (rima ricca). È opportuno osservare anche i rimandi di suono presenti negli ultimi versi: la rima ricca svolta:volta e in particolare le assonanze dischiuse dal trittico rIpA:infIDA:insiIDiA.

Veniamo ora al tema della poesia, quello del viaggio. Viene ripreso qui un tema – che attraversa gran parte della produzione caproniana – palesemente allegorico, perché il viaggio è quello della vita, osservata dal poeta-viaggiatore sul limitare della sua fine. In questi versi, però, non c’è traccia di quell’ironia pacata, sebbene non priva di tormento, incontrata nel Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965):

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, son certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.

Il viaggiatore cerimonioso scende dal treno senza sapere dove si trovi (“Il luogo del trasferimento / lo ignoro”), mentre il viaggiatore di Statale 45 percorre in auto i luoghi conosciuti dell’Alta Val Trebbia (“queste nostre / zone montane”) e si presume sappia bene dove arrivare. Una profonda inquietudine, tuttavia, pervade interamente la mente del poeta (“La mente è tesa”), un’inquietudine preannunciata dagli agenti esterni, allarmanti (“Dovunque, / segnali d’allerta”) e forieri di presagi crudeli (“[l’]erba che vena / l’asfalto”). Tali agenti appaiono quasi come estranei, come a chi non si fosse ancora abituato ai percorsi scoscesi e alle tipiche asperità del territorio montano dell’entroterra ligure. C’è qualcosa di non detto che sorprende l’abituale viaggiatore (“A ogni svolta / la sorpresa sovrasta / l’attesa”) tanto da dedurre che la meta finale non sia quella solita e familiare, ma qualcosa che confermi epifanicamente l’angosciosa premonizione (“la presunta meta / si rivela un’insidia”). La “disperazione calma e senza sgomento”, razionale e distaccata, ha ceduto il posto a un sentimento viscerale, che la mente non riesce a decifrare, ma che possiamo tradurre in termini di paura. Una paura dantesca, suggerita dalle immagini della salita erta, della voragine (“la ripa”) e dallo smarrimento del poeta (sappiamo che i riferimenti a Dante sono disseminati un po’ in tutta l’opera di Caproni, già negli evocativi titoli delle raccolte Il seme del piangere [10] e Il muro della terra [11], ma si prenda in particolare Controcanto nel Conte di Kevenüller). È significativo che il poeta provi un senso di smarrimento, spaesamento, proprio nei luoghi dove egli ha collocato il proprio paese d’elezione, dove ripone i suoi affetti (“Valtrebbia. Aria fina. / […] paese di foglie / fresche, dove ho preso moglie” si recita in Litania). Ritornando in quei luoghi, abbandonati da tempo (si riprenda Lasciando Loco o Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia dal Muro della terra), il poeta non trova rifugio ma, al contrario, un inedita ostilità. Forse, però, questa lettura è forzata dal cercare un motivo apparente per l’inclusione, sin dal titolo, di riferimenti concreti e toponimi, mentre occorre tener fermo che nell’ultimo Caproni gli spazi e gli ambienti (anche quelli affettivamente importanti della Val Trebbia) declinano la loro fisica concretezza su un piano astratto e metafisico.

Credo che si possa leggere questa poesia – una delle ultime di Caproni – inferendo, alle tematiche consuete, essenziali dati biografici, senza speculare più di tanto sulle possibili tracce ravvisabili nell’opera caproniana, né inoltrandoci sui complessi aspetti filosofici che ne derivano. La poesia è datata 1987-89, quindi ultimata un anno prima della scomparsa dell’autore. Il viaggio finale, inscenato tante volte (per interposta persona in Ad portam inferi, nel ricordato Congedo, nell’Ultimo borgo, inserito significativamente in una sezione del Franco cacciatore intitolata Conclusione quasi al limite della salita, e in innumerevoli altre prove), è qui vissuto da Caproni in prima persona (anche se, paradossalmente, non compare mai l’io lirico). È come se, giunto sul limitare della propria esistenza, il poeta attenda di scontrarsi viso a viso con la morte e, molto umanamente, ne provi paura. La concreta paura di quel mistero che attende noi tutti (i verbi impersonali possono bene assolvere ad un significato universale: ecco forse la ragione dell’assenza del vocabolo io e dei verbi in prima persona) è descritta come un’irruzione di emotività che, improvvisamente, nelle nostre zone montane, ci coglie di sorpresa oltre ogni aspettativa.

Giorgio Caproni è nato a Livorno nel 1912, ha vissuto gli anni della sua formazione umana e poetica a Genova; dal dopoguerra scelse, per necessità, di vivere a Roma, dove è morto il 22 gennaio 1990. Roma è stata sempre considerata dal poeta la città dell’esilio e della profonda solitudine esistenziale, (“Qua / […] io sono lontano e solo / (straniero) come / l’angelo in chiesa dove / non c’è Dio. Come / allo zoo, il gibbone.”). Oggi dorme sepolto nel piccolo cimitero di Loco di Rovegno, sulla sommità della sua Genova.

 

Bibliografia:

  • Pietro Beltrami, Gli strumenti della poesia, il Mulino, Bologna, 2002;
  • Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1999;
  • Elio Gioanola, Letteratura italiana – Storia e testi, vol. III tomo secondo, Colonna, Milano, 1998;
  • Cesare Segre, Clelia Martignoni, Leggere il mondo, vol. VIII, Guerra, dopoguerra, secondo Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2001;
  • Luigi Surdich, Le idee e la poesia – Montale e Caproni, il melangolo, Genova, 1998;
  • Enrico Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino, 2005;
  • Paolo Zoboli, Immagini di Genova. Campana, Sbarbaro, Montale e Caproni, in «Trasparenze», n. 9, 2000, pp. 3-22.

 

[1] Tortuosa: ricca di curve e tornanti.

[2] Erta: ripida, faticosa da salire.

[3] Zone montane: sono i luoghi caproniani dell’Alta Val Trebbia (Loco, La Moglia, Fontanigorda, Rovegno), attraversati dalla Strada Statale 45.

[4] Sovrasta: è più grande.

[5] Ripa: il bordo del dirupo.

[6] Infida: mal sicura.

[7] Subdola: ingannevole.

[8] Insidia: agguato, trappola.

[9] Un ottonario al v. 3 + 3a (“zone montane // Dovunque,”), un altro al v. 5 + 5a (“Fondo dissestato. // Frane.”); settenario è il v 6 + 6a (“Caduta massi. // Il motore”), senario il successivo v. 7 + 7a (“s’inceppa. // La ruota”)…

[10] Cfr. Purg., XXXI, 43-46: “Tuttavia, perché mo vergogna porte / del tuo errore, e perché altra volta, / udendo le sirene sie più forte, / pon giù il seme del piangere ed ascolta”.

[11] Cfr, Inf., X, 1-3: “Ora sen va per un secreto calle, / tra ‘l muro della terra e li martìri, / lo mio maestro, e io dopo le spalle”.

Intervista a Giuseppe Ungaretti

Trascrivo qui di seguito ai video di YouTube il testo della famosa intervista al poeta Giuseppe Ungaretti trasmessa dagli studi televisivi della Rai nel 1961, all’interno del programma Incontro con… Giuseppe Ungaretti, a cura di Ettore della Giovanna.

La mia vita… La mia vita è stata dura. Ho fatto il poeta nei ritagli di tempo e ho fatto sempre un secondo mestiere. Ho fatto il giornalista, un mestiere nobile, e sono fiero di averlo esercitato per lunghi anni. Ho fatto il professore ed è un altro nobile mestiere: ora sono sul punto di abbandonarlo per sempre, ma stare a contatto dei giovani è certo una delle esperienze più vere che un uomo possa fare – e anche un poeta. L’umanità si conosce meglio nei giovani. I giovani sono sinceri, non hanno ancora provato troppo la vita e vi si abbandonano e quindi si scoprono nella loro autenticità umana.

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La Closerie des Lilas

Che altro… Vorrei ricordare come è nata al pubblico la mia poesia (non come è nata in me perché quella è una cosa che non saprei spiegare). È nata nel… sono cinquant’anni… sono quasi cinquant’anni!

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Giovanni Papini

Quindi oggi si celebrerebbero qui le mie nozze d’oro con la poesia… sì, sono quasi cinquant’anni!  A Parigi, in un caffè, la Closerie des Lilas, dove ci si riuniva tutti i martedì, intorno a Paul Fort, che era il principe dei poeti di questo “principato” già ridicolo allora, e che ora sembra sia caduto interamente nel ridicolo (ma, insomma, lasciamo andare)… dunque si era lì in questo caffè che tutti i martedì riuniva i poeti di ogni nazione (Parigi era carica di poeti veri o falsi di ogni paese), intorno a Paul Fort, e lì incontrai Soffici e Palazzeschi e Marinetti e Papini che erano arrivati a Parigi in occasione della fondazione delle Soirées de Paris da parte di Apollinaire.

In che anno era pressappoco?

Lacerba_Magazine_1913
Frontespizio del primo numero della rivista quindicinale Lacreba, fondata da Giovanni Papini e Ardengo Soffici, 1 gennaio 1913

Doveva essere verso il ’12. Di recente, in occasione dei miei settant’anni – e, be’, sono passati già da un po’ di tempo… – Palazzeschi ha ricordato l’episodio. Mi presentarono a Soffici e agli altri che ho nominato i quali mi chiesero di dar loro delle poesie. Io avevo delle poesie, ma non pensavo a pubblicarle: quelle sono state le mie prime poesie uscite in rivista, in Lacerba, soprattutto per opera di Palazzeschi, di Papini e di Soffici. Papini ora non c’è più, ma Soffici e Palazzeschi sono ancora vivi e rivolgo loro un saluto affettuoso.

Ungaretti è il maestro di tutta una generazione di poeti. È la mia generazione. È la generazione dei poeti ermetici. Che cosa ha insegnato Ungaretti alla mia generazione? Ungaretti ci ha fatto vedere i pericoli, i vizi più grossi della poesia: il vizio della retorica, il vizio del sentimentalismo e il vizio del futurismo. Ungaretti ci ha fatto vedere come nemici D’Annunzio, i crepuscolari e Marinetti. Questo è stato il suo grande insegnamento e noi abbiamo avuto lui come maestro. Quindi io vorrei chiedere a Ungaretti chi si scelse lui come guida, come maestro, quando cominciò a fare, più di cinquant’anni fa, le sue prime poesie?

I maestri, cioè i poeti, che mi attrassero subito sono due. Un poeta italiano che è Leopardi e un poeta francese che è Mallarmé.

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Eduard Manet, Ritratto di Stéphane Mallarmé, 1876

È curioso: io ho conosciuto Mallarmé ancora ragazzo, ancora scolaro, e mi battevo con i miei compagni perché loro lo consideravano un poeta oscuro, come lo è difatti. Non lo capivo neanche io, ma c’era qualche cosa in Mallarmé che mi attraeva: sentivo che in quella poesia intensa c’era un segreto, e che la poesia è tale quando porta in sé un segreto. Se la poesia è decifrabile nel modo più elementare, non è più poesia. Anche la poesia che pare semplice deve contenere un segreto. Non ha bisogno di contenere il segreto con quelle difficoltà da letterato che vi metteva il Mallarmé, ma deve contenere un segreto. Leopardi aveva capito benissimo che la poesia doveva contenere un segreto: si prenda per esempio La primavera, di solito considerata come una poesia neoclassica. Non è affatto una poesia neoclassica.

800px-Leopardi,_Giacomo_(1798-1837)_-_ritr._A_Ferrazzi,_Recanati,_casa_Leopardi
A. Ferrazzi, Ritratto di Giacomo Leopardi, 1820

Si prenda il titolo, Della primavera ovvero delle favole antiche: si trova nelle annotazioni del Leopardi per la parola antiche una spiegazione straordinaria. Si trova nel Meursio, che il Leopardi cita e al quale rimanda il lettore, che antiche è il contrario di postiche, cioè è un punto cardinale; antiche vuol dire meridiane, e allora, nel dire antiche, Leopardi vuol dire che sono di un tempo lontano e nello stesso tempo vuol dire che sono del tempo del Mezzogiorno che ci è lontano. In questa parola ambivalente il Leopardi vuol dare questo senso della durata, dal tempo del calore o dal tempo antico quando l’uomo era vicino alla natura, al nostro tempo isterilito dall’intelligenza. È tutto pieno di queste parole difficili a capirsi [Leopardi], soprattutto La primavera dove in modo particolare il Leopardi ha esercitato la sua eleganza.

Ungaretti ha ricordato gli inizi della sua vita letteraria a Parigi, i rapporti con Paul Fort e i poeti della Closerie des Lilas. C’è un poeta che tutti conoscono, che è stato importante per tutti, è stato un mito e per Ungaretti è stato qualcosa di più, è stato un capitolo della sua vita: Apollinaire. Con Apollinaire credo che lei abbia avuto dei rapporti, non so, di quelli che possono avere un poeta con un altro poeta, e siccome so che è stato importante per lei, volevo chiedere se lei può ricordare qualcosa di questi rapporti, di questa super-amicizia poetica.

Apollinaire
Guillaume Apollinaire

I contatti con Apollinaire sono stati frequenti fin dal primo momento, fino da quell’occasione nella quale incontrai Soffici, Papini e Palazzeschi che mi indussero per la prima volta a pubblicare poesie mie. L’incontro che mi rimane più impresso del mio rapporto con Apollinaire è l’ultimo incontro. Apollinaire mi aveva scritto mentre ero in zona di guerra, in Champagne, e dalla Champagne, al momento dell’armistizio, alla fine della guerra, fui inviato a Parigi per la redazione di un giornale destinato ai soldati che si chiamava il Sempre Avanti.

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Guglielmo II imperatore di Germania

Apollinaire mi aveva chiesto che, tornando a Parigi, gli portassi dei toscani, che gli piacevano. Tornato a Parigi, andai subito in Boulevard Saint-Germain a incontrare Apollinaire. Era il giorno dell’armistizio, il 4 novembre, credo, o il 3 novembre, non so, del ’18; la città era rumorosa, la gente urlava «À bas Guillaume! À bas Guillaume! À bas Guillaume!» (Guillaume era l’imperatore di Germania). Io vado su – già questo à bas Guillaume mi aveva sconcertato, perché io andavo a vedere Guillaume Apollinaire – vado su, entro nella camera e Apollinaire era steso sul suo letto con il viso coperto da un velo nero. Era morto. Stava lì, con il quadro che gli aveva dato per le nozze Picasso a capo al letto. Ecco, questo è il ricordo che conservo di Apollinaire più terribile: con quei gridi di «À bas Guillaume!» e quell’uomo magnifico, scomparso.

Lei ha parlato del segreto della poesia: in modo illuminante ce ne ha parlato. Quello è il segreto alto, esoterico, della poesia. Forse però, anzi, certamente la curiosità del pubblico, che si interessa ai poeti, probabilmente più di quanto non si creda, vorrebbe conoscere qualcosa circa il segreto spicciolo della poesia, direi forse il meccanismo della poesia stessa. Cioè, in parole più povere, lei scrive delle poesie, alcune delle quali sono famose non soltanto per la loro importanza, ma anche per la loro concinnità, per la loro estrema brevità: «M’illumino / d’immenso» è una delle più famose da questo punto di vista. Come le scrive lei tecnicamente? Voglio dire, è il fatto musicale che primeggia in lei o è il fatto concettuale? O è qualche cosa che la tormenta all’improvviso e si chiude dentro sé stesso e anche in una stanza, prigioniero in un faro, come diceva Baudelaire, oppure per la strada, in mezzo agli altri uomini, in un tram, su quel piccolo treno di Marino, così famoso a un certo momento della storia della letteratura contemporanea, proprio perché lei lo prendeva ogni giorno per andare a Roma e per tornare a Marino ogni sera?

Ma… si fa poesia… non pensandoci. Perché occorre farla. Ho scritto il primo libro di poesie Il porto sepolto e poi una parte dell’Allegria in trincea, su pezzetti di carta che mi capitava di avere, sull’involucro di cartone delle pallottole, su delle cartoline in franchigia, così, nel pericolo, fra un tiro e l’altro.

Ed oggi qual è il suo procedimento normale?

Il procedimento normale… non si sa! Viene così, d’un tratto, un’idea e poi questa idea vi tormenta e poi scrivete qualche cosa e poi vi ritorna ancora e poi continuate e poi… A volte è un lavoro lungo, a volte è un lavoro che si fa in pochi momenti. Non so, L’isola, per esempio, che è una poesia lunga, elaborata, del Sentimento del tempo, mi è nata in una notte; altre poesie brevissime mi richiedono sei mesi di lavoro, non sono mai a posto, si seguono con l’orecchio… Non si sa poi cosa sia quest’orecchio! Non si sa che cosa sia perché l’orecchio va dietro al significato, va dietro al suono, va dietro a tante cose… Insomma, tutto deve finire col combinare e col dare la sensazione che si è espressa la poesia. Ma non si è mai espressa veramente, si è sempre scontenti, si vorrebbe che fosse detto diversamente, ma… la parola è impotente. La parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi, mai: lo avvicina.

Francesco d’Assisi, Laudes creaturarum

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Giotto, dalle Storie di san Francesco, La predica agli uccelli, 1295-99, Basilica superiore di Assisi

Un tempo la storia della letteratura italiana veniva fatta tradizionalmente cominciare con le esperienze della Scuola siciliana e in particolar modo con la poesia Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo (quarto o quinto decennio del Duecento, secondo Contini).

Ebbene, un degno inizio della poesia italiana è testimoniato dalle Laudes creaturarum o Canticum fratris Solis (o Cantico delle creature o Cantico di frate Sole) di San Francesco d’Assisi (1181-1226), composto due anni prima della morte del santo, quindi nel 1224.

È bene ricordare che esistono documenti antecedenti che attestano la presenza del volgare in varie zone della penisola (Firenze, Capua, Marche, Verona…), ma si tratta piuttosto di indizi che presenze di una piena cultura letteraria. Le Laudes di Francesco, anche senza contare la nobiltà del contenuto spirituale, rappresentano invece una migliore continuità fra cutura latina cristiana e cultura volgare.

Ecco il testo:

Laudes creaturarum

Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue sò le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu Te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatone.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et preziose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et omne tempo,
per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato sì’, mi’ Signore, per sor ’Acqua,
la quale è multo utile et humile et preziosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale enallumini la nocte:
et ello è bello, et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.

Laudato sì’, mi’ Signore per quelli ke perdonano per lo Tuo amore
et sostengo infirmitate et tribolazione.

Beati quelli ke ‘l sosteranno in pace,
ke da Te Altissimo, saranno incoronati.

Laudato sì’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue santissime voluntati,
ka la morte seconda no ‘l farrà male.

Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.

Domanda: si tratta di una poesia? Di una preghiera?

Risposta: si tratta di una “prosa rimata” di 33 versi asimmetrici rimati o assonanzati tra di loro ed è esempio di un genere liturgico che va sotto il nome latino di laudes. Ai tempi di Franceso, durante l’ufficio liturgico, si recitavano i Salmi biblici (in latino, naturalmente), molti dei quali venivano nominati laudes, cioè “lodi”, perché  in essi tornano di frequente le parole laus, laudate, laudare. Francesco ebbe l’idea di rivestire tale genere della lode al Signore in lingua del sì. È lecito pensare, infatti,  che Francesco recitasse il suo Cantico sia dentro che fuori dalle chiese, a fini propagandistici, e con lui lo recitassero i suoi confratelli: questa è la principale ragione della scelta linguistica francescana, cioè quella di adottare una lingua spuria, popolare, distante (ma non troppo) dai canoni formali della tradizione latina (mantenuti invece dall’istituto ecclesiastico) ma capace di imitarli in un neo-latino adattato diastraticamente per ceti sociali illetterati.

Suggerimenti di lettura:

  • Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Firenze, 1976
  • Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino, 1996
  • Giampaolo Dossena, Storia confidenziale della letteratura italiana, Volume 1. Dalle origini a Dante, Rizzoli, Milano, 1987
  • Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Bompiani, Milano, 1960

 

Il grande dittatore -Discorso all’umanità

Il discorso del barbiere ebreo, nei panni di Hynkel, al termine del film Il grande dittatore di Charlie Chaplin (The Great Dictator, USA, 1940):

Mi dispiace, ma io non voglio fare l’Imperatore: non è il mio mestiere; non voglio governare né conquistare nessuno. Vorrei aiutare tutti, se possibile: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti. La natura è ricca, è sufficiente per tutti noi.

La vita può essere felice e magnifica.

Ma noi lo abbiamo dimenticato.

L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio, ci ha condotti a passo d’oca a far le cose più abbiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà; la scienza ci ha trasformato in cinici; l’avidità ci ha resi duri e cattivi; pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari, ci serve umanità; più che abilità, ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è violenza e tutto è perduto.

L’aviazione e la radio hanno riavvicinato le genti; la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà nell’uomo, reclama la fratellanza universale, l’unione dell’umanità. Perfino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di torturare e imprigionare gente innocente.

A coloro che mi odono, io dico: non disperate! L’avidità che ci comanda è solamente un male passeggero, l’amarezza di uomini che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori e il potere che hanno tolto al popolo ritornerà al popolo e, qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa.

Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi disprezzano e vi sfruttano, che vi dicono come vivere, cosa fare, cosa dire, cosa pensare, che vi irreggimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie. Non vi consegnate a questa gente senza un’anima, uomini macchina, con macchine al posto del cervello e del cuore. Voi non siete macchine, voi non siete bestie: siete uomini! Voi avete l’amore dell’umanità nel cuore, voi non odiate, coloro che odiano sono quelli che non hanno l’amore altrui.

Soldati! Non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate nel Vangelo di San Luca è scritto: «Il Regno di Dio è nel cuore dell’uomo». Non di un solo uomo o di un gruppo di uomini, ma di tutti gli uomini. Voi! Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, la forza di creare la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare che la vita sia bella e libera; di fare di questa vita una splendida avventura.

Quindi, in nome della democrazia, usiamo questa forza. Uniamoci tutti! Combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore! Che dia a tutti gli uomini lavoro; ai giovani un futuro; ai vecchi la sicurezza. Promettendovi queste cose dei bruti sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse, e mai lo faranno! I dittatori forse sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse! Combattiamo per liberare il mondo, eliminando confini e barriere; eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranza. Combattiamo per un mondo ragionevole. Un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere.

Soldati, nel nome della democrazia, siate tutti uniti!

[La folla lo acclama. Quindi, durante l’ultima parte del discorso viene inquadrata Hannah, che sta ascoltando il messaggio alla radio e ha riconosciuto la voce del barbiere]

Hannah, puoi sentirmi? Dovunque tu sia, abbi fiducia. Guarda in alto, Hannah! Le nuvole si diradano: comincia a splendere il sole. Prima o poi usciremo dall’oscurità, verso la luce e vivremo in un mondo nuovo. Un mondo più buono in cui gli uomini si solleveranno al di sopra della loro avidità, del loro odio, della loro brutalità.

Guarda in alto, Hannah! L’animo umano troverà le sue ali, e finalmente comincerà a volare, a volare sull’arcobaleno verso la luce della speranza, verso il futuro… il glorioso futuro che appartiene a te, a me, a tutti noi. Guarda in alto Hannah, lassù.

La versione originale:

I’m sorry, but I don’t want to be an Emperor — that’s not my business. I don’t want to rule or conquer anyone. I should like to help everyone, if possible — Jew, gentile, black man, white. We all want to help one another; human beings are like that. We want to live by each other’s happiness, not by each other’s misery. We don’t want to hate and despise one another. In this world there’s room for everyone and the good earth is rich and can provide for everyone.

The way of life can be free and beautiful.

But we have lost the way.

Greed has poisoned men’s souls, has barricaded the world with hate, has goose-stepped us into misery and bloodshed. We have developed speed but we have shut ourselves in. Machinery that gives abundance has left us in want. Our knowledge has made us cynical, our cleverness hard and unkind. We think too much and feel too little. More than machinery, we need humanity. More than cleverness, we need kindness and gentleness. Without these qualities, life will be violent and all will be lost.

The aeroplane and the radio have brought us closer together. The very nature of these inventions cries out for the goodness in men, cries out for universal brotherhood for the unity of us all. Even now my voice is reaching millions throughout the world, millions of despairing men, women, and little children, victims of a system that makes men torture and imprison innocent people.

To those who can hear me I say, “Do not despair.” The misery that is now upon us is but the passing of greed, the bitterness of men who fear the way of human progress. The hate of men will pass and dictators die; and the power they took from the people will return to the people and so long as men die, liberty will never perish.

Soldiers: Don’t give yourselves to brutes, men who despise you, enslave you, who regiment your lives, tell you what to do, what to think and what to feel; who drill you, diet you, treat you like cattle, use you as cannon fodder. Don’t give yourselves to these unnatural men, machine men, with machine minds and machine hearts! You are not machines! You are not cattle! You are men! You have the love of humanity in your hearts. You don’t hate; only the unloved hate, the unloved and the unnatural.

Soldiers: Don’t fight for slavery! Fight for liberty! In the seventeenth chapter of Saint Luke it is written, “the kingdom of God is within man” — not one man, nor a group of men, but in all men, in you, you the people have the power, the power to create machines, the power to create happiness. You the people have the power to make this life free and beautiful, to make this life a wonderful adventure.

Then, in the name of democracy, let us use that power! Let us all unite!! Let us fight for a new world, a decent world that will give men a chance to work, that will give you the future and old age a security. By the promise of these things, brutes have risen to power, but they lie! They do not fulfill their promise; they never will. Dictators free themselves, but they enslave the people!! Now, let us fight to fulfill that promise!! Let us fight to free the world, to do away with national barriers, to do away with greed, with hate and intolerance. Let us fight for a world of reason, a world where science and progress will lead to all men’s happiness.

Soldiers: In the name of democracy, let us all unite!!!

Hannah, can you hear me? Wherever you are, look up, Hannah. The clouds are lifting. The sun is breaking through. We are coming out of the darkness into the light. We are coming into a new world, a kindlier world, where men will rise above their hate, their greed and brutality.

Look up, Hannah. The soul of man has been given wings, and at last he is beginning to fly. He is flying into the rainbow — into the light of hope, into the future, the glorious future that belongs to you, to me, and to all of us. Look up, Hannah. Look up.

Alessandro Manzoni non è il vero autore dei “Promessi sposi” (istruzioni per leggere “I promessi sposi”, 1)

Bottega di narrazione

di Giulio Mozzi

Domanda: chi è il vero autore dei Promessi sposi?

Risposta: lo sanno tutti, è Alessandro Manzoni.

La risposta, ahimè, è sbagliata (sul piano finzionale; sul piano reale è giusta, ma il piano reale non ha molta importanza).

* * *

Tutti ricordiamo (perché più o meno tutti, volenti o nolenti, abbiamo letto I promessi sposi) che nella prefazione Manzoni dichiara di aver trovato un manoscritto anonimo secentesco; di averlo letto, trovando assai bella la storia raccontata; di averne iniziata la trascrizione; di essersi presto stufato di ricopiare frasi del tipo

E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri…

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