Tra tutti i miti che si raccontano, quello di Efesto mi ha sempre e maggiormente affascinato. Se ci guardiamo attorno, Efesto possiamo scorgerlo in tanti grandi eroi della storia e della cultura. Non parlo degli eroi comuni, o comunemente intesi: a fare gli eroi così, son buoni tutti, basta l’occasione propizia. Parlo degli eroi speciali e pazzeschi come Ludwig van Beethoven (1770-1827), completamente sordo e imprescindibile compositore di musica per il bene di tutta l’umanità; come Omero (VIII secolo a.C.), poeta cieco e visionario per antonomasia; come Stephen Hawking (1942-2018), tra i più autorevoli studiosi di cosmologia, malato di SLA e instancabile divulgatore scientifico attraverso il suo sintetizzatore vocale; come Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901); come Giacomo Leopardi, Jorge Luis Borges, Michel Petrucciani… Una scintilla di Efesto splende in loro come in tanti luminosi prodigi che incontriamo lungo le nostre vite. (NB. Il nome di Efesto può considerarsi una correzione di hemerophaistos, «colui che brilla durante il giorno»).
Ma chi è Efesto? Un dio o uno sfigato? Be’, i problemi di Efesto iniziano prima ancora che nascesse, già dal concepimento: è di incerta paternità. Figlio di Hera e fratello di Ares, alcuni miti lo vogliono figlio di Zeus, altri di Hera soltanto. È nato così gracile e mingherlino che sua madre Hera, disgustata, lo gettò giù dalla più alta vetta dell’Olimpo per liberarsi dall’imbarazzo che il suo pietoso aspetto le ispirava.
«[…] il frutto delle mie viscere, Efèsto, mio figlio,
Inni omerici, Inno ad Apollo Pizio (traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1925)
infermo è più che ogni altro dei Superi, ha torte le gambe.
Io l’afferrai per un piede, lo scaraventai giù nel mare;
ma di Nerèo l’accolse la figlia dai piedi d’argento,
Tètide, e lo recò fra l’altre sorelle».
Efesto però sopravvisse al pauroso volo poiché cadde nel mare, dove le Oceanine Teti (la futura madre di Achille) e Eurinome erano pronte ad accoglierlo. Queste dee gentili tennero il bimbo con loro in una grotta sottomarina, dove Efesto installò la sua prima fucina e ricompensò le sue ospiti delle cortesie usategli fabbricando per loro ogni sorta di oggetti utili e ornamentali.
Verrà ammesso nuovamente tra le divinità dell’Olimpo quando gli dei verranno a sapere della sua straordinaria abilità: infatti, un giorno, quando ormai erano passati nove anni, Hera incontrò Teti che aveva appuntata sulla veste una spilla fabbricata da Efesto. Scoprì così la verità, suo figlio non era morto, e subito lo riportò sul monte Olimpo, dove preparò per lui una splendida fucina, con venti mantici che soffiavano notte e giorno; e poiché aveva ormai grande stima del figlio combinò le sue nozze con Afrodite, dea della bellezza.
La sua re-integrazione, tuttavia, sarà nuovamente compromessa dalle sue stesse parole e dal suo aspetto: a causa di quest’ultimo, Afrodite lo tradì in più occasioni, preferendogli il fratello Ares, dio della guerra.
Efesto osò rimproverare Zeus in difesa della madre Hera, punita per essersi a lui ribellata: Zeus infuriato scagliò il figlio di Hera per la seconda volta giù dall’Olimpo. Precipitò nell’aria per un giorno intero e toccando terra sull’isola di Lemno si fratturò ambedue le gambe; benché immortale, era rimasta ben poca vita nel suo corpo quando gli abitanti di Lemno lo raccolsero.
«Abbi pazienza, o madre, sopporta, se pure tu soffri,
Omero, Iliade, I, vv. 585-594 (traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1923)
ch’io con questi occhi mai veder non ti debba percossa:
sebbene tanto io t’amo, soccorrerti allor non potrei,
per quanto io mi crucciassi: ché duro è contender con Giove!
Anche quell’altra volta ch’io volli difenderti, a un piede
egli mi strinse, e giù mi scagliò dalla volta del cielo.
Rimasi un giorno intero per aria; e al tramonto del sole,
in Lemno caddi; e poco di spirito ancor mi restava:
la gente Sintia qui mi raccolse, dov’ero caduto».
In seguito, ritornato sull’Olimpo col perdono di Zeus, potè camminare con l’aiuto di stampelle d’oro.
E Teti pie’ d’argento, pervenne alla casa d’Efèsto,
Omero, Iliade, XVIII, vv. 368-409 (traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1923)
stellata, eterna, bella fra quante son case dei Numi,
tutta di bronzo, che aveva costrutta egli stesso, il Pie’ torto.
E lo trovò che sudava, girandosi ai mantici attorno,
che s’affrettava: stava foggiando dei tripodi, venti,
da stare alle pareti d’intorno a una solida stanza.
Sotto a ciascuno, alla base, disposte egli aveva rotelle
d’oro, perché da sé movesser dei Numi ai convegni,
poi ritornassero a casa da sé, meraviglia a vederli.
Eran sin qui compiuti; ma ancora le fulgide orecchie
non v’erano: ei le stava foggiando, battendone i chiovi.
Mentre a queste opere intento con grande artificio era il Nume,
Tètide a lui, la Dea dall’argentëo pie’, giunse presso.
Càrite giunger la vide, la bella dal morbido velo,
che sposa era d’Efesto, l’insigne ambidestro; e le mosse
contro, le prese la mano, le volse cosí la parola:
«Teti dal lungo peplo, qual causa, diletta e onorata,
te guida al nostro tetto? Di rado venirci solevi!
Vieni prima con me, ché i doni ospitali ti porga».
E, cosí detto, seco l’addusse la Dea fra le Dive,
sovra un bel trono ornato di borchie d’argento e di fregi,
seder la fece; ed uno sgabello anche v’era pei piedi.
Efèsto indi chiamò, l’artefice insigne, e gli disse:
«Efèsto, fatti avanti, ché Tètide è qui che ti cerca».
E a lei rispose allora l’artefice insigne ambidestro:
«Una gran Dea mi dici ch’è giunta, ch’io venero. In salvo
ella mi trasse, quando, caduto dal cielo, io pativo,
mercè della mia madre, la cagna sfacciata, che volle
farmi sparire, perché ero zoppo; e avrei molto sofferto,
se non m’avessero accolto nel grembo Eurínome e Tèti,
Eurínome, la figlia d’Ocèano, che cinge la terra.
Stetti sette anni con esse, foggiando molte opere belle
nel bronzo, e fibbie, e curvi bracciali, e collane ed anelli,
entro la cava spelonca: d’intorno, d’Ocèano il flutto
scorrea rimormorando, spumando incessante; né altri
sapea, né fra i Celesti, di me, né fra gli uomini: sola
Tèti sapea, che salvato m’aveva, ed Eurínome sola.
Ed ora, alla mia casa giunge ella: pertanto conviene
che adesso io renda a Tèti dai riccioli belli il compenso.
Ora, imbandisci tu per essa la mensa ospitale,
ché io metta da parte i mantici e tutti gli arnesi».
Efesto è brutto e di cattivo carattere, ma ha grande forza nei muscoli delle braccia e delle spalle e tutto ciò che fa è di impareggiabile perfezione. Il poeta non vedente Omero ci ha narrato di questo dio costruttore della mitologia greca, rifiutato dai “divini” genitori a causa delle sue fattezze di storpio, come di un dio disabile che però costruisce gli strumenti sia per la propria autonomia e sia per il progresso degli uomini. Accolgo qui le osservazioni di Luciano Perez, psichiatra e psicologo analista, autore di un intervento dal titolo Aspetti simbolici della disabilità. La figura di Efesto rappresenta un archetipo che sottolinea l’importanza della conquista dell’autonomia da parte delle persone disabili e l’abbattimento dei comuni pregiudizi.
È infelicemente noto a tutti che l’altro, il “diverso”, diventa il bersaglio preferito delle nostre proiezioni psicologiche negative. Vale a dire: esiste, nel nostro subconscio, una parte di noi che rimuoviamo e rifiutiamo, ma che ci accompagna sempre; questa parte, quando viene respinta, rifiutata o non assimilata dalla coscienza, si presenta a noi dall’esterno. Ci sono innumerevoli esempi quotidiani, ma anche storici e sociali a riguardo: basti pensare al rifiuto che i gruppi sociali maggioritari hanno avuto nei confronti degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali (Europa medievale, nazismo), degli afro-americani (Stati Uniti), della donna da parte di molte religioni tra cui il Cristianesimo. [Perez, 2004].
Questo meccanismo di rifiuto si applica anche al caso dei disabili. Trovo, dunque, necessario, per rendersi conto di tale meccanismo e destrutturarlo, vedere come il disabile possa essere inteso simbolicamente attraverso il mito greco.
Efesto (nome latino: Vulcano) è il grande dio della metallurgia, le cui fucine sono state localizzate in vari luoghi, ad esempio in Sicilia: alla fine del racconto, Efesto, stanco di essere deriso dalla dea della bellezza, torna sulla Terra, nelle viscere del monte Etna, abbandonando l’Olimpo per sempre. Ancora oggi, se l’Etna fuma, è perché Efesto sta lavorando a chissà quale prodigioso marchingegno meccanico o a chissà quale meravigliosa invenzione artistica.
La figura di Hera (o Era, o Giunone nella mitologia romana), di cui Efesto è vittima, rappresenta la madre-matrigna quale è stata madre natura per molti disabili. La storia raccontata dal mito prevede che Efesto si vendichi di questa madre snaturata, invidiosa e maligna. Efesto si prende la sua vendetta su Hera costruendo e donandole un magico trono d’oro il quale, non appena ella vi si siede, la tiene imprigionata, non permettendole più di alzarsi. Gli altri dei pregano Efesto di liberarla, ma egli si rifiuta più volte di farlo e abbandona l’Olimpo. Allora Dioniso fa in modo di ubriacarlo e lo riporta indietro legato sul dorso di un mulo. Efesto acconsente a liberare la madre, a patto che tutti gli dei lo riconoscano come dio.
Si può interpretare quest’ultima parte del mito con un accenno alle possibilità tecnologiche – dai veicoli alle protesi, alle facilitazioni architettoniche – che permettono ai disabili di vendicarsi, o perlomeno di limitare i danni, di una natura maligna. Dio dei fabbri e degli artigiani, Efesto raggiunge vette eccelse sia tecniche sia artistiche: dalle fanciulle meccaniche tutte d’oro allo scudo di Achille.
C’è un’altra considerazione da fare in relazione al personaggio: oltre alla deformità delle gambe e alla bruttezza del volto esemplificata dai capelli e dalla barba ispidi, Efesto, nelle varie versioni del mito che lo riguardano, ha sempre a che fare direttamente con la bellezza (femminile, sulla base dei rapporti che intrattiene con Afrodite, Atena, Charis, Algae; artistica, in relazione alle opere da lui forgiate). Questo rapporto tra deformità e bellezza rappresenta il senso profondo di ciò che ci viene insegnato da millenni.
La deformità del corpo apre a una serie di bellezze “divine” e quindi psichiche, secondo un percorso concettuale dal corpo alla mente. La deformità può essere la “porta” attraverso la quale si può arrivare alla bellezza, anche, e certamente, grazie alla perizia artistica e tecnologica di Efesto. Si può interpretare che la menomazione apra la strada a una specializzazione dell’individuo che gli permetta, essendo Efesto un dio, di raggiungere traguardi, pur all’interno delle sue limitazioni, divini.
Dal punto di vista strutturale, il mito può essere osservato anche seguendo la direttrice alto-basso e ritorno. Dalla vetta della montagna all’abisso dell’oceano, e dall’abisso al cielo; discesa e ascensione – peccato e redenzione.
Poiché fisicamente menomato, Efesto è cacciato dall’Olimpo e rotola per giorni verso il basso: è proprio perché fisicamente menomato, danneggiato, privato dell’integrità e dell’efficienza, che l’ascesa spirituale è possibile. Per salire ci si deve paradossalmente diminuire.
Non possiamo quindi considerare la menomazione di molti disabili un segno di qualcosa che potremmo interpretare come una possibilità di crescita spirituale, anche se pagata a carissimo prezzo?
Queste cose vanno bene:
un gelato e una torta
una corsa sull’Harley
vedere le scimmie sugli alberi
la pioggia sulla lingua
e il sole che splende sul mio visoQueste cose fanno schifo:
Roy Lee Dennis, 1961-1978
polvere nei miei capelli
buchi nelle mie scarpe
niente soldi nelle mie tasche
e il sole che splende sul mio viso
Fonti:
- Robert Graves, I miti greci, Longanesi, 1963
- Omero, Iliade, traduzione di Guido Paduano, Mondadori, 1995
- Omero, Iliade, traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1923
- Omero, Omero minore, Inni – Batracomiomachia – Epigrammi – Margite, traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1925
- R. J. Palacio, Wonder, Giunti, 2012
- Luciano Perez, Aspetti simbolici della disabilità, relazione tenuta in Marsala, Complesso monumentale di San Pietro, 3 Dicembre 2004.